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Come erano le strade nella Roma antica? Lo storico francese Jérôme Carcopino, nel suo “La vita quotidiana a roma” ricostruisce minuziosamente una giornata nelle vie della città.

Estratto da “La vita quotidiana a roma” di Jérôme Cacopino, Laterza.

 

[…] Se con un colpo di bacchetta magica si fosse potuto dipanarne il groviglio e allinearle l’una dietro l’altra, le vie di Roma, contate e misurate da Vespasiano e Tito al tempo del loro censimento del 73 d. c., avrebbero coperto una distanza di 60000 passi pari a circa 85 chilometri. Plinio il Vecchio, fiero di quell’immenso sviluppo, poneva a raffronto l’altezza degli edifici che sorgevano sul percorso di quelle vie per proclamare subito dopo che non c’era nel mondo antico una città la cui grandezza potesse esser paragonata a quella di Roma.

Ma in realtà si tratta solo di una grandezza quantitativa e gli elementi di cui è composta sono tra loro stridenti, dal momento che invece di ordinarsi secondo la prospettiva immaginaria che Plinio rappresenta con una linea retta sulla sua pergamena, la rete della viabilità romana si perdeva sul terreno di una matassa inestricabile dove gli inconvenienti erano aggravati dall’enormità stessa degli edifici che abbracciava. Tacito infatti attribuisce all’anarchia delle strade chiuse, sinuose, divaganti come se fossero state tracciate senza regola attraverso la massa delle insulae gigantesche, la facilità e la rapidità con le quali si propagò in Roma il terribile incendio del 64 d. C.

Quanto a Nerone, per il quale tale lezione non era andata perduta, se le sue intenzioni furono di ricostruire gli isolati distrutti secondo un piano razionale, con allineamenti più rigorosi e con passaggi più larghi, nei risultati non raggiunse lo scopo. Nel complesso e fino alla fine dell’impero, le strade di Roma costituirono un insieme per nulla organico piuttosto che un sistema veramente efficiente; esse conservarono sempre qualcosa delle loro lontane origini e delle vecchie distinzioni, che avevano presieduto al loro primitivo assetto di tipo rustico: itinera, le vie accessibili ai soli pedoni; actus, quelle in cui poteva passare un carro alla volta; e infine viae propriamente dette quelle in cui due carri potevano incrociarsi o superarsi.

Nel complesso densissimo delle vie di Roma solo due avevano diritto al nome di via entro l’antica muraglia repubblicana, la Via Sacra e la Via Nova, che attraversavano o costeggiavano il Foro e che, con sorpresa, troviamo del tutto irrilevanti. Tra le porte della cinta di mura e la periferia delle quattordici regioni, un’altra ventina meritavano quel nome; le vie che da Roma conducevano in Italia: la via Appia, la via Latina, la via d’Ostia, la via Labicana, ecc. Esse hanno una larghezza oscillante tra m. 4,80 e 6,50, prova evidente che non avevano guadagnato molto spazio dal tempo in cui le Dodici Tavole avevano stabilito una larghezza massima di 16 piedi, pari a m.4,80.

La maggior parte delle altre, le vere e proprie vie, i vici, raggiungevano a stento tale ampiezza, e tra queste molte vi restavano anche al disotto – semplici passaggi, angiportus, o sentieri, semitae, cui era prescritta una larghezza di 10 piedi (m. 2,90) perché le case che li fiancheggiavano potessero avere il permesso di costruire dei balconi ai piani superiori. La strettezza delle vie era tanto più scomoda quanto più esse erano tortuose, e dovevano salire o discendere forti pendii sulle sette colline, onde il nome, dato a molte, di rampe, clivi: clivus Capitolinus, clivus Argentarius, ecc. Infine, insudiciate quotidianamente dai rifiuti delle case, non erano certo tenute così bene come aveva prescritto Cesare nella sua legge postuma, né erano sempre munite del marciapiede e della pavimentazione che il dittatore aveva preso l’iniziativa di imporre una volta per tutte.

Rileggiamo il celebre testo inciso sul bronzo della tavola d’Eraclea: Cesare intima, con tono minaccioso, ai proprietari di edifici che costeggiano una pubblica via, di pulire davanti alle porte e ai muri, e all’edile da cui dipende il loro quartiere di supplire ad eventuali contravvenzioni, facendo eseguire da un appaltatore, designato con i sistemi in uso nei mercati di Stato, delle corvées obbligatorie, a un prezzo fissato in precedenza all’asta, e che i contravventori erano tenuti a versare, accresciuto della metà al minimo ritardo. L’ordine ha un tono imperativo, la sanzione è senza pietà; ma per quanto il meccanismo fosse montato ingegnosamente, tutta la procedura portava con sé dei ritardi – dieci giorni almeno – che devono averla resa inefficace nella maggior parte dei casi; e bisogna convenire che delle robuste squadre di spazzini, direttamente reclutati e impiegati dagli edili, avrebbero risolto l’affare meglio e più presto. Non risulta affatto che ne siano esistite, né l’idea che lo Stato avrebbe dovuto, in tale circostanza, sostituire la propria autorità o la propria responsabilità a quella dei privati, poteva venire in mente a un romano, fosse pure dotato del genio di Giulio Cesare. Così, per mancanza di servizi adatti, i magistrati non furono mai capaci, malgrado la loro vigilanza e il loro zelo, di assicurare alle strade di Roma imperiale la salubrità delle nostre. E ritengo che non abbiano avuto maggior successo nell’estendere a tutta l’Urbe i marciapiedi (margines, crepidines) e neanche il selciato (sternendae viae) di cui Cesare in altri tempi aveva sperato di provvedere le strade.

Gli archeologi che sono di opinione contraria chiamano a testimoni, con tutta serietà, le larghe banchine delle strade italiane senza ricordarsi che quelle della via Appia furono messe in opera nel 312 a. c., 65 anni prima di quelle del clivus Publicius, nell’interno della cinta repubblicana 51; oppure si trincerano una volta di più dietro l’esempio di Pompei, dimenticando quanto tale analogia sia ingannevole. Se le strade della Roma imperiale fossero state largamente provviste della pavimentazione che si attribuisce loro, il pretore dei Flavi, di cui parla Marziale, non sarebbe stato costretto nel percorrerle a infangarsi , né Giovenale, a sua volta, ci sarebbe sprofondato dentro.

Quanto ai marciapiedi, se ve ne fossero stati in abbondanza, per evitare che le strade fossero invase dalle merci in mostra non si sarebbe dovuto attendere quell’editto di Domiziano vantato in un epigramma di Marziale:

«Non più fiaschi appesi ai pilastri, … le gargotte Annerite stravaccate sul cammino, Barbiere, bettoliere, friggitore, norcino. Nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino».

Ma questo editto ebbe un effetto durevole? È lecito dubitarne. Il ritiro delle ceste di merci che forse la dispotica volontà d’un imperatore mai riuscì ad ottenere durante il giorno, aveva luogo spontaneamente di notte. Questo è effettivamente uno dei caratteri per i quali la Roma imperiale più si allontana dalle capitali contemporanee: le sue strade, nelle notti senza luna restavano immerse nella più profonda oscurità. Niente fanali a olio o a candela appesi al muro e nemmeno lanterne sospese agli architravi delle porte, salvo luminarie eccezionali, quando Roma s’illuminava improvvisamente, in segno d’allegrezza collettiva, per celebrare una festa imprevista – come quella che ebbe luogo la sera in cui Cicerone l’ebbe liberata dal pericolo di Catilina. In tempi normali, la notte cade sulla città come l’ombra di un pericolo, diffuso, misterioso, terribile. Ognuno se ne torna a casa, ci si serra dentro e ci si barrica. Le botteghe tacciono ovunque, le catene di sicurezza si tendono dietro i battenti delle porte; le imposte degli appartamenti si chiudono a loro volta e i vasi di fiori vengono ritirati dalle finestre che avevano ornate.

I ricchi, se devono uscire, si fanno accompagnare da schiavi che portano fiaccole per illuminare e proteggere la loro marcia. Quanto agli altri, non contano troppo sulle ronde notturne (sebaciaria), eseguite, alla luce delle torce, da pattugliamenti di vigili nel settore (troppo vasto per essere sorvegliato ovunque) delle due regioni, il cui servizio di polizia è affidato a ognuna delle sette coorti. Essi si avventurano fuori con una vaga apprensione e certamente con riluttanza. Giovenale dice sospirando che recarsi ad una, cena, senza prima aver fatto testamento, può essere giudicata una negligenza. E se il poeta esagera pretendendo che la Roma dei suoi tempi fosse meno sicura della foresta Gallinaria e delle paludi Pontine, basta sfogliare il Digesto e notarvi i passaggi che riservano alla giurisdizione del prefetto dei vigili gli assassini (sicarii), gli svaligiatori (effractores), i grassatori di ogni natura (raptores) che pullulavano in Roma, per convenire che in quei vici tenebrosi (in cui all’epoca di Silla, Roscio Amerino, ritornando da una cena in campagna, aveva trovato la morte) erano da temere «i sùbiti infortuni ». Ma non tutte queste disavventure erano così tragiche, anche se è vero che il nottambulo si esponeva alla morte o, quanto meno, all’infezione ogni volta che s’apriva sul suo capo una finestra insonne. E il meno era quello che capitò ai tristi eroi del romanzo di Petronio, i quali, lasciando mezzo brilli, e molto tardi, la tavola di Trimalcione, si perdettero senza lanterne in quel labirinto di strade prive di tabelle indicative, senza numeri e senza fanali, e rischiarono di non trovare il loro alloggio prima del far del giorno.

La circolazione era dominata da questo contrasto tra il giorno e la notte. Durante la giornata c’era un’animazione intensa, una confusione grandissima, un fracasso infernale: le tabernae coi loro banchi in mostra sulla strada sono affollate non appena aperte; qui i barbieri radono i loro clienti in mezzo alla strada, là i venditori ambulanti di Trastevere se ne vanno barattando i loro pacchetti di zolfanelli con oggetti di vetro. Altrove i bettolieri, arrochiti a forza di chiamare una clientela che fa finta di non sentire, esibiscono salsicce fumanti nelle casseruole calde. Maestri si scuola a i loro allievi si sgolano all’aria aperta. Da una parte un cambiavalute fa sonare su di una sudicia tavola la sua raccolta di monete con l’effigie di Nerone; dall’altra un battiloro raddoppia i colpi della sua mazzetta brillante sulla pietra consunta; al crocicchio, un capannello di curiosi sta rapito intorno a un incantatore di vipere; dovunque risuonano i martelli dei calderai, tremolano le voci dei mendicanti, che in nome di Bellona o ricordando le loro disgrazie cercano di intenerire i passanti. Questi scorrono via in un fiume ininterrotto al quale gli ostacoli non impediscono di divenire ben presto torrenziale; e per quelle stradette nepure degne di un villaggio, è tutto un mondo, all’ombra o al sole, che vam viene, grida, si accalca, si spinge e si urta (sul trambusto diurno di Roma, cfr Seneca, De Clem., I, 6;  Marziale, I, 41 e XII, 57).

La notte si potrebbe credere che i rumori si spengano nel silenzio della paura, in una specie di pace sepolcrale; ma sono semplicemente sostituiti da altri: alla sfilata degli uomini, ora chiusi nelle loro case, succede, per volontà di Cesare, la sfilata delle bestie da soma, dei loro carrettieri e dei loro convogli. Il dittatore aveva in realtà capito che in stradette così accidentate, anguste e frequentate come i vici di Roma, la circolazione dei veicoli indispensabili per i bisogni di centinaia di migliaia di abitanti avrebbe immediatamente causato di giorno un imbottigliamento e costituito un pericolo permanente; donde la misura radicale da lui adottata e che possiamo apprendere dalla sua legge postuma: dal levar del sole fino al primo crepuscolo non saranno tollerati carri in movimento dentro l’Urbe. Quelli che si saranno introdotti durante la notte e che l’alba avrà sorpresi prima che si siano allontanati, avranno solo il diritto di stazionarvi vuoti; e saranno ammesse solo quattro eccezioni a tale regola ormai inderogabile; tre eccezioni temporanee, , rispettivamente consentite: ai carri delle Vestali, del rex sacrorum, dei Flamini, nei giorni delle cerimonie solenni; ai carri indispensabili alla processione della vittoria, nei giorni del trionfo; e ai carri richiesti dalla celebrazione dei giuochi pubblici nei giorni ad essi destinati.. Poi un’eccezione valida tutti i giorni dell’anno, per i carri degli appaltatori che demoliscono una città asfissiante per ricostruirla più sana e più bella. Al di fuori di questi casi nettamente determinati, non circolano nella vecchia Roma durante la giornata che i pedoni, i cavalieri, i padroni di lettighe e di portantine; e quanto ai funerali si tratte di povere esequie sbrigate alla svelta di sera, o di maestosi funerali svolgentesi in pieno giorno, siano preceduti o no da suonatori di flauto o di corno, seguiti o no da una lunga teoria di parnei, di amici o di praeficae – donne che piangono a pagamento -, i morti stessi siano chiusi nella loro bara (capulum) o deposti in una bara d’affitto (sandapila), se ne andranno al rogo destinato alla loro cremazione o alle tombe della loro sepoltura su di una semplice barella portata a braccia dai vespillones.
Viceversa, all’avvicinarsi della notte, comincerà il legittimo traffico dei carri di ogni sorta che riempiono la città del loro frastuono.
Né è da credere, poi, che la legislazione di Cesare non gli sia sopravvissuta e che i privati siano riusciti presto o tardi a farne saltare le disposizioni draconiane con la pressione dei loro agi e dei loro interessi. La mano di ferro del dittatore ha vinto i secoli, e gli imperatori suoi eredi non hanno mai affrancato i romani dalle soggezioni cui egli li aveva duramente sottoposti nell’interesse vitale della comunità; al contrario, essi le hanno a loro volta consacrate e rafforzate. Claudio le estenderà dall’Urbs ai municipi italici; Marco Aurelio a tutte le città dell’impero, senza eccezione per i loro statuti municipali; mentre Adriano limiterà il tiro e la portata dei carri autorizzati a entrare nel l’Urbe. E tanto alla fine del primo secolo quanto nel secondo d. C. gli scrittori ci mostreranno l’immagine di una Roma definitivamente disciplinata da Giulio Cesare. Per esempio, in Marziale è appunto di notte che i veicoli scuotono le insulae al loro passaggio mentre il Tevere echeggia il richiamo dei portatori e dei facchini. In Giovenale il transito incessante e il rumoreggiare continuo che l’accompagna condannando senza scampo i romani all’insonnia.
«Qual mai casa d’affitto Consente il sonno?
il via vai dei carri
Per le voltate delle anguste vie
E lo schiamazzo delle mandre ferme
Anche a un Druso toglierebbero il sonno,
Anche alle foche.»

E nella calca insopportabile del giorno, contro la quale il poeta inveisce subito dopo, al di sopra della folla di pedoni scorgiamo soltanto la lettiga del riccone, trasportata da robusti liburni. Il gregge nel quale il poeta viene trascinato, procede a piedi in un’incessante e violenta ressa. La folla che lo precede fa ostacolo alla sua fretta, quella che lo segue lo preme di dietro; uno lo urta col gomito, un altro con una trave, un terzo lo colpisce alla testa con un metreto (barile di trentanove litri di capacità); un grosso scarpone gli schiaccia un piede, un chiodo da soldato gli si caccia nell’alluce, ed ecco andarsene in pezzi la sua tunica da poco rammendata. Poi all’improvviso il panico: è apparso un carrettone sul quale oscilla una lunga trave; poi un altro che trasporta un abete tutto intero e un altro ancora carico di marmi di Liguria.

«E se si abbatte Un carro pieno di liguri macigni
E su la calca fa precipitare
Quel rovinio, che resta più dei corpi?
Chi più le membra, chi più l’ossa trova?».

Così, sotto i Flavi e sotto Traiano, come un secolo e mezzo prima dopo la pubblicazione dell’ordinanza di Giulio Cesare, i soli veicoli che circolassero in Roma di giorno, erano quelli degli imprenditori edili. La legge del morto imperatore è sempre viva e tale persistenza è la prova di quella originalità che garantì alla Roma imperiale un posto senza pari tra tutte le città della geografia e della storia: l’Urbs armonizza senza sforzo gli aspetti più contraddittori; si adatta con naturalezza alle forme più diverse del passato e del presente, e mentre sembra suggerire paragoni contrastanti, resta in fondo incomparabile. Abbiamo visto poco fa che le sue case pretenziose e fragili portano a un livello che le nostre superano di ben poco, le raffinatezze moderne di un lusso stravagante e le grossolanità medievali di risibili scomodità. E ora, per concludere, sono proprio le sue strade a sconcertarci: hanno l’aria di avere preso a prestito le scene che si svolgono nei souks di qualche bazar, sono frequentate da folle agitate, brulicanti e variopinte, come ne potremmo incontrare sulla piazza Djemaa el-Fna di Marrakech, piene di una confusione che a noi sembra incompatibile con l’idea stessa della civiltà. Ed ecco d’improvviso apparire, per trasformarle in un batter d’occhio, un ordine imperioso e logico, decretato in un momento e mantenuto per intere generazioni, come il segno di quella disciplina sociale che supplì presso i romani alle deficienze della loro tecnica, e che l’Occidente, oggi, oppresso dal moltiplicarsi delle sue scoperte e dalla complessità dei suoi progressi, cerca anch’esso di seguire per la sua propria salvezza.

Estratto da “La vita quotidiana a roma” di Jérôme Cacopino, Laterza.

 

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